sabato 19 luglio 2014

Il vero volto di Nelson Mandela: terrorista, comunista, assassino, anticattolico al soldo di Usraele

Castagna: «Mandela? Vita violenta e assassina

«In merito alla morte del terrorista comunista Nelson Mandela rigettiamo, per quello che fu la sua condotta di vita anticristiana, violenta ed assassina, la volontà del sindaco di Verona Tosi di nominarlo cittadino onorario della città». Lo afferma Matteo Castagna, leader scaligero dei fondamentalisti cattolici di Christus Rex.
«Riteniamo abominevole – prosegue – soltanto che si sia pensato ad una cosa del genere in onore di siffatto delinquente». «In merito all’espulsione – conclude Castagna – nei confronti del consigliere circoscrizionale leghista Francesco Vartolo, che sulla sua pagina Facebook ha semplicemente espresso la verità storica su tale personaggio così come ogni cattolico ed ogni persona dotata di raziocinio deve rilevare, esprimiamo incondizionata solidarietà e questa sera gli offriremo da bere per il coraggio dimostrato di fronte ad un leader di partito che utilizza nei confronti delle idee i metodi di Pol Pot e non è la prima volta».
Fonte: http://www.larena.it/stories/Home/604324_castagna_mandela_vita_violenta_e_assassina/
Segnalazione di Andrea Giovanazzi
Chi è veramente Nelson Mandela
Nelson Rolihlahla Mandela, 1918 – 2013
Segnalazione di Maurizio-G. Ruggiero
http://controstoria88.blogspot.it/ – Il blog politicamente scorretto di Controstoria – 24 settembre 2008
Spesso, nella storia, vi sono genocidi dimenticati o rimossi dalla memoria comune, ma non per questo non vi sono delle vittime innocenti. Questa mia affermazione è riferita alle atrocità commesse dalla comunità nera sudafricana nei confronti di quella dei boeri.
Ora cercherò di riassumere la storia del popolo boero in modo cronologico dalla perdita della sua libertà:
-1902; i boeri perdono la loro libertà
-1990; Nelson Mandela (terrorista comunista) viene rilasciato
-1994; l’ANC (partito comunista) vince tramite elezioni illegali, e il NWB (movimento di resistenza boero) inizia la lotta per l’indipendenza del suo popolo.
A dieci anni dalla fine dell’Apartheid la persecuzione razziale in Sud Africa esiste ancora, ma si è capovolta, la praticano i neri nei confronti dei cittadini bianchi o boeri, i quali, con il partito marxista al potere, sono oggetto di una pulizia etnica oltremodo brutale. I morti ammazzati, bruciati vivi, segati a metà aumentano vertiginosamente ogni giorno.
La solita storia insomma, se le vittime del genocidio sono di pelle nera (come nel caso del Darfur) per bloccarlo si mobilitano Usa, Onu e Ue, ma se le vittime sono bianche e dagli occhi chiari non gliele frega niente a nessuno, nessuno muove un dito per pretendere il riconoscimento dei loro diritti.
Dal 1° luglio l’assemblea nazionale ha reso legge il Firearm control bill, che annulla di fatto la prerogativa dei contadini boeri sul possesso di armi per autodifesa. Ormai in molti danno per scontato un “effetto Zimbabwe”, un bis della pulizia etnica contro i bianchi condotta nell’ex Rhodesia dal dittatore Mugabe. Certo i bianchi in Sudafrica sono 3,5 milioni ma, anche in Zimbabwe cominciò così e, prima ancora, con i Tedeschi in Namibia. Chi può, ha cominciato a scappare. Il rischio, quando morirà l’estremo parafulmine Nelson Mandela è che venga meno ogni freno e il genocidio contagi le città. Il problema è che i bianchi sudafricani non hanno una madrepatria che li accoglierebbe compensandone i danni: vivendo lì da tre secoli e mezzo sono oramai dei nativi, quanto gli statunitensi in America.
Rudi Botes, 47 anni, rinvenuto con gli occhi cavati nella fattoria Genbade presso Bultonfontein; Adriana Van Der Riet, 86 anni, uccisa con 20 pugnalate in una fattoria nelle Rocklands; Martmaria Da Bruin, 18 anni, stuprata in un lago di sangue nel suo letto a Honeydew; Roelof Gottschalck, 34 anni, impiccato a Rustenburg. Hanno antichi nomi europei questi martiri del Sud Africa. Ma tutto questo non nasce dal nulla, anzi era prevedibile data la politica razzista intrapresa dal governo nero di Pretoria.
Nel 2004 il premier Thabo Mbeki, a capo di un monocolore dell’African National Congress d’ispirazione comunista, ha varato un pacchetto di leggi per il “potenziamento economico dei neri” (Bee Laws). Si tratta di leggi che, nella sostanza, rimuovono il diritto inviolabile alla proprietà privata, cancellano ogni toponimo Afrikaaner, chiudono i loro centri culturali, scolastici, radiofonici, completando la rimozione di ogni segno di matrice europea del Programma per il rinascimento africano. Sulla china del genocidio si arriva però con il programma di redistribuzione della terra, che consente che qualunque nero accampi un diritto su un podere Afrikaaner, per quanto datato o velleitario, di appropriarsene tout court: immaginate cosa accade quando i tribunali o gli interessati non acconsentono. O quando gli imprenditori agricoli rifiutano le società con azionisti neri, imposte dalle Bee Laws.
E dire che i primi a rimetterci dall’estinzione dei Boeri sono giusto i neri. Il Sudafrica era il granaio del continente, grazie all’export sottocosto delle fattorie bianche. Molte delle 24 nazioni che ora soffrono la fame nella fascia subsahariana lo devono al crollo della produzione boera, che dava cibo a 130 milioni di africani. E persino in alcune zone del Sudafrica quest’anno è comparso lo spettro della fame.
Ritratto politicamente scorretto del rivoluzionario
Mandela
Alle “monache di Monza” che, a differenza di quella manzoniana, si risolvono a cambiar vita, i buoni confessori dicono che una lunga astinenza è come una seconda verginità. Sarà per questo che la sua “canonizzazione” in vita ha fatto scordare a tutti le vere origini diNelson Mandela. Ma i giornalisti sono al mondo per questo.
Il suo vero nome era Rolihlahla Dalibhunga, ed era principe di un ramo cadetto dei thembu di lingua xhosa. È nato il 18 luglio 1918 a Mevzo, sulle rive del Mbashe, nel distretto di Umtata, nel Tembuland, capitale del Transkei, già Bantustan, nella Repubblica Sudafricana sudorientale, indipendente dal 1979 (a Qunu, che molti ritengono avergli dato i natali, la sua famiglia si spostò quando il padre, Gadla Henry Mphakanyiswa, perse la successione, alienandosi il favore delle autorità coloniali). Alle elementari un maestro, pastore metodista affascinato dall’eroe di Trafalgar, non riuscendo a pronunciare “Rolihlahla”, lo ribattezzò Nelson; per la cronaca, Rolihlahla, significa “piantagrane”. Il cognome, Mandela, era il nome di un figlio di un suo avo, re Ngubengcuka, passato in eredità come cognome. Nel 1940, 22enne, si ribella, assieme al cugino Justice, al matrimonio combinato dal capo thembu Jongintaba Dalindyebo, che lo aveva allevato come un figlio. Dopo di ché avrà tre mogli (suo padre quattro, lui era figlio della terza), la più nota delle quali è stata la seconda, Winnie Madikizela, la quale la sapeva lunga sui bagni di sangue degli anni 1980 e 1990, Soweto e giù di lì. Era così estremista, la Winnie, che un giorno il Nelson le preferirà la seconda verginità in panni democratici, ripudiandola.
All’università di Fort Hare, Johannesburg, Mandela studia Legge, si fa cacciare per tafferugli studenteschi, ma fa in tempo a conoscere il suo Pigmalione, Oliver Tambo, presidente (per lungo tempo) dell’African National Congress, la madre di tutte le rivoluzioni comuniste sudafricane, organizzazione finita fuorilegge nel 1960. Il Nelson vi entra nel 1942, nei suoi circoli stringe amicizia con Yossel Mashel “Joe” Slovo, futuro leader del Partito Comunista Sudafricano, nel 1952 diviene presidente dell’ANC per Transvaal e nel 1961 crea l’organizzazione Umkhonto we Sizwe (“Lancia della Nazione”), ovvero il braccio militare dell’ANC. Per le strade la gente comincia a farsi male. I neri che non si riconoscono nell’ANC e nel PC sudafricano finiscono con i copertoni al collo in fiamme. Nel Paese il problema razziale è enorme almeno da quel 1948 in cui il Nasionale Party, la formazione dei nazionalisti afrikaans, impone l’apartheid. Ma che il comunismo dell’ANCnon sia mai stato la soluzione, anzi sempre parte integrante del problema, è evidente. Per esempio lo è all’Inkatha Freedom Party, guidato dal re zulu Mangosuthu Buthelezi, nero come la pece, nemico giurato del comunismo e dell’ANC. Del resto il compagno Slovo, di origine lituana, aveva la pelle bianca.
Un giorno, il 5 maggio 1962, Mandela viene arrestato a Howick, nel Natal, e condannato a 5 anni per reati minori. Alle sue spalle vi era però la serie di attentati che, dal 21 marzo al 19 aprile 1960, avevano ucciso 86 persone e ferite 424, tutti attribuiti all’ANC e alla sua ala scissionista, il Pan Africanist Congress. Poi l’11 luglio 1963 la polizia scopre a Rivonia, vicino a Johannesburg, l’alto comando, clandestino, dell’Umkhonto we Sizwe. Mandela finisce ancora sotto torchio e alla fine è condannato per cospirazione. Al processo vengono ascoltati 173 testimoni, ma è lo stesso Mandela ad ammettere apertamente che la sua organizzazione persegue scopi politiciattraverso la violenza. In più, dice di avere personalmente progettato azioni di sabotaggio e di avere organizzato campi di addestramento militari all’estero, uno dei quali lo ha seguito pure lui in Algeria. Del resto aveva anche teorizzato la lotta armata di classe in manuali tipo quello intitolato Come essere un buon comunista, in certi documenti politici sul “materialismo dialettico” saltati fuori al processo di Rivonia e nell’opuscolo Operation Mayibuye (cioè “ritorno”) dove il precedente citato a esempio è la guerriglia comunista a Cuba, capace di vincere e di reggere. In uno dei testi sequestrati dalla polizia e presentati al dibattimento in aula, Mandela dettagliava quel suo cursus honorum rivoluzionario in nome del marxismo-leninismo per cui erano necessarie, fra l’altro, 210mila bombe a mano, 48mila delle famigerate mine antiuomo e 1500 timer per altrettanti ordigni. Il 23 agosto 1985, in un’intervista non firmata comparsa su La Stampa, Mandela la disse tutta: «Il bianco deve essere completamente vinto e spazzato dalla faccia della terra prima di realizzare il mondo comunista».
In prigione Mandela ci ha passato così 26 anni e mezzo, dal giugno 1964 all’11 febbraio 1990. Da libero, ha assunto subito la presidenza ufficiale del buon vecchio ANC, e il 10 marzo 1994 si è insediato come presidente democratico e osannato del nuovo Sudafrica postrazzista. Fra i suoi ministri c’era l’immarcescibile Slovo, il bianco rosso. Ispirato da Karl Marx e dai cappellani della “teologia della liberazione”, Mandela è stato paragonato al Mahatma Gandhi (che iniziò la carriera proprio in Sudafrica e che, guarda caso, ammirava pure lui il filosofo di Treviri). Dalle sue parti lo hanno venerato come “Madiba”, un titolo onorario adottato dai membri anziani del suo clan e mutato in nomignolo poi di successo mondiale. Nel 1993 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace, nonostante la guerriglia comunista, il tifo per Saddam Hussein e le amicizia con Yasser Arafat (terrorista, antisemita, pure lui Nobel per la Pace nel 1994), Fidel Castro e Muhammar Gheddafi. E pure nonostante avesse affermato ‒ in una intervista a John Lofton su The Washington Times, sempre dell’evidentemente assai produttivo 23 agosto 1985 ‒ che: «non vi è alternativa alla rivoluzione violenta, non vi è spazio per una lotta pacifica».
Sia scritto nero su bianco: l’apartheid è una schifezza, la segregazione pure, il razzismo peggio. Ma che Mandela sia stato un nero per caso?
l Giornale – 29 marzo 2010
In Sudafrica uccidere
un bianco non è reato
Più di tremila assassinati in quindici anni nei modi più atroci, quasi
tutti senza un colpevole. La strage dei boeri viaggia al ritmo di due
delitti alla settimana con la compiacenza del governo. Che ha un
obiettivo preciso: l’esproprio delle loro terre
Se andate in Sudafrica per i mondiali di calcio fate un salto a Petersburg, nelle province settentrionali. Da quelle parti troverete una collinetta disseminata di croci bianche. Contatele. Sono più di tremila.
Una per ciascun agricoltore bianco ucciso dal 1994, da quando la «rivoluzione colorata» incominciò a cambiare il volto del Paese. Una rivoluzione che, 16 anni dopo, sembra pronta ad approfittare della «distrazione» del mondiale per metter le mani sulle fattorie dei boeri.
Se dunque l’apartheid era ignobile, il silenzio che circonda il clima di violenza e soprusi sofferto dagli agricoltori boeri non sembra migliore. Chiedetelo al 69enne Nigel Ralf. Lo scorso fine settimana Nigel, come ogni giorno da 50 anni, sta mungendo le vacche della sua fattoria di Doornkop nel mezzo del KwaZulu-Natal. Quando quei quattro ragazzotti neri gli si piantano davanti e gli chiedono del latte, Nigel manco alza la testa. «Non vendo al dettaglio» risponde. Un attimo dopo è a terra con un proiettile nel collo e uno nel braccio. Poi i quattro gli sono addosso, lo fanno rialzare, lo colpiscono con il calcio della pistola, lo spingono fuori dalle stalle. Stordito e confuso Nigel si ricorda di sua moglie. Mezz’ora prima l’ha lasciata dentro la fattoria con i tre nipotini. «Lynette, Lynette chiudi la porta, barricati dentro». Lei lo sente, ma non intuisce. S’affaccia, cerca di capire meglio. La risposta sono tre proiettili al petto. La poveretta s’accascia, cade sul letto, agonizza tra le braccia insanguinate di Nigel mentre i bambini urlano terrorizzati e i tre tagliagole fuggono portandosi dietro una vecchia pistola, un telefono e un paio di binocoli. Bazzecole, banalità quotidiane.
Sui giornali non fanno neanche notizia, ma sulla collinetta di Petersburg solo l’altr’anno sono state piantate altre 120 croci bianche. I plaasmoorde – gli assassini di fattoria come li chiamano i boeri – colpiscono ormai al ritmo di un paio di casi a settimana, ma per le autorità, per i capi dell’Anc e per i seguaci del presidente Jacob Zuma la campagna di violenza contro gli ultimi 40mila agricoltori bianchi non è certo un problema. Per capirlo basta seguire le ultime apparizioni pubbliche di Julius Malema, il 29enne leader dell’ala giovanile dell’African National Congress. Per questo «giovane leone» pupillo del presidente il modo migliore per riscaldare le folle accalcate intorno alle sue mercedes blindate è intonare «Dubula Ibhunu», la vecchia canzone dell’Anc il cui titolo significa emblematicamente «Spara al Boero». Un inno rispolverato ed eseguito con spavalda e incurante allegria negli stessi giorni in cui Lynette agonizzava tra le braccia del marito, mentre un altro farmer 46enne veniva freddato dalla salva di proiettili sparati contro la sua fattoria di Potchefstroom e una serie di fendenti massacrava un allevatore 61enne sorpreso nel sonno dagli assalitori penetrati in una tenuta di Limpopo.
Ovviamente chiunque osi collegare il fiume di sangue versato nelle fattorie e la canzonetta cantata a squarciagola da Julius e dalle sue allegre combriccole viene immediatamente tacciato di calunnia e diffamazione. «Quella canzone come molte altre intonate nei giorni della lotta fa parte della nostra storia e della nostra eredità e non può certo esser vietata» precisa con orgoglio un comunicato dell’African National Congress sottolineando lo struggente carattere «sentimentale» delle storiche note.
Peccato che quel rigurgito d’antichi sentimenti nei confronti degli agricoltori bianchi coincida, a livello politico, con il progetto di nazionalizzazione delle fattorie avanzato, negli ultimi tempi, dal dipartimento di sviluppo rurale. La proposta del dipartimento che intende dichiarare assetto d’interesse nazionale tutte le tenute coltivabili di ampie dimensioni potrebbe portare all’esproprio di tutte le terre possedute tradizionalmente dai boeri. E così mentre i tifosi si godranno i mondiali di calcio l’odiato color bianco scomparirà definitivamente dalle campagne del Paese «colorato».
Fonte:http://www.agerecontra.it/

Nessun commento:

Posta un commento