sabato 19 luglio 2014

diciannove luglio millenovecentonovantadue

Le commemorazioni, quelle incravattate per i morti ammazzati, hanno sempre questa carica retorica vuota, enciclopedica, finta. Riassumono, sovente, le stesse approssimazioni biografiche che ogni anno pletore di commentatori puntualmente commossi regalano alle coscienze condivise dei giornali.
Sono morti a distanza di pochi mesi, Giovanni e Paolo. Uno in autostrada, quella stessa che facevo per andare al mare. L’altro, ironia bastarda, al citofono della mamma, in una sorta di gioco sacro e invertito delle parti, con il Figlio che forse voleva solo piangere la propria paura di morire ai piedi (alla croce) della Madre. L’ho sempre immaginata così, la faccenda, in una mistica e blasfema mia personale reinterpretazione evangelica. Chissà perché, poi, di Giovanni non ricordo quasi niente e di Paolo quasi tutto. E’ una strana discriminazione memoriale che non so ancora giustificarmi. Forse che la memoria ha i suoi vincoli e vicoli ciechi che non conducono da nessuna parte? Chissà.
(questa cosa del compianto del Figlio la raccontai al prete qualche anno dopo, non appena mi resi conto della colpa. Ricordo la sua faccia sconcertata, i baffi fuori moda e il buio del confessionale. – Benissimo, benissimo – cominciò a dire, muovendosi su tutta la sedia – hai fatto bene a raccontarlo)
corriere borsellinoDella morte di Paolo ricordo quasi tutto. Ricordo le fragole in bocca e la nonna che la domenica veniva a trovarci. Era il diciannove luglio millenovecentonovantadue. Nel cortile, in canottiera e pantaloncini, sentivo il pallone dei picciotti giocare.
(anche le penitenze sono assai strane, ora che ci penso. Quella volta, per la prima e ultima volta, fui obbligato a recitare il Rosario. Non ho mai capito cosa cazzo c’entrasse con i citofoni. Fu il prete, subito dopo essersi ricomposto, a imporlo con estrema franchezza, sicuro e toccandosi il mento: un Atto di dolore prima di andare a dormire e un Rosario alla settimana. Punto. Bah: a me sembrò un peccato assai veniale, questo della croce. Pensai di tornare in sagrestia ma il sospetto di un’altra condanna mi fece paura)
Ci sono delle altre cose che ricordo, che forse ora fingo di non ricordare. I quadri ricamati appesi alle mura della mia vecchia casa, per esempio, il tavolo in mezzo alla stanza, la carta da parati giallastra e il televisore trentadue pollici che sulla parete attrezzata ci stava perfetto. Tra il rizzoli larousse, da un lato, e una foto incorniciata dei miei, lontani sposi del 1979.
(una volta la chiesi alla nonna, questa cosa del rosario. Le sue rughe allora si mossero e lei rimase immobile. Sia fottuto il mondo, quello che rispose non lo ricordo più. Ricordo solo il movimento, quello strano spiegazzarsi epidermico grigio. L’avrò lasciato ai miei sei anni, questo piccolo segreto estivo e non feriale che mi porto ancora in testa)
Fu un luglio assai strano, quello. Di fragole grosse e di occhi di mia madre, quell’estate. Di sirene e ambulanze veloci.
attentato borsellinoIo, quel pomeriggio, non ci capii niente. Mi dicevo che siccome c’era appena stato u fistinu, il carro della Santa e i fuochi d’artificio, le ambulanze correvano via-via per la città perché seguivano il boato silenzioso delle micce inesplose dei petardi.
Mi ricordo dell’edizione straordinaria dei tiggì, pure. Le prime immagini. I pompieri con gli idranti e queste strane facce da ultima volta, le divise e le telecamere, i toni arrabbiati. Le lacrime in diretta e quelle in differita.
Minchia. Quelli furono mesi che ancora mi ricordo. L’aria greve degli occhi di mia madre a spiegarmi le ragioni della vita e delle morti, la tv sempre accesa, i commenti della zia, i palloncini colorati lanciati alle nuvole della mia seconda elementare, le mani rachitiche della maestra e queste lunghe camminate benedette dal parrino e da qualche onorevole. Sembravamo in processione, noialtri, ma l’aria era un’altra e non si poteva sorridere, no, si doveva fare i buoni, farsi tirare le orecchie. Mi ricordo di un compagno una fila più dietro, era grosso e coi capelli pisciati. Lui lo sapeva, quello che minchia era successo. Ammazzaru a uno e si viri ca’ su miritò. Punto. Così mi disse. Io lo guardai un attimo pensando alle croci e ai citofoni, al suo accento marcato molto simile al mio. Poi mi voltai e ripresi il cammino, occhi bassi e fila ordinata, benedetto dai fiati corti puzzolenti e incravattati delle istituzioni mie concittadine.
Michele Schillaci per 9ArtCorsoComo9

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