ROMA - Steve Stern è un uomo a cui nel 2011 hanno diagnosticato la Sla, una malattia neurodegenerativa al momento incurabile. Sua moglie Bo, scrittrice e blogger americana, da alcuni anni cura un blog sulla sua esperienza con la malattia del marito. In un post pubblicato pochi giorni fa, Bo Stern parla della campagna virale "Ice Bucket Challenge" (le secchiate d'acqua gelata in testa, segno dell'adesione alla battaglia anti Sla). Solo marketing e poche donazioni? Bo non la pensa così: per lei la campagna virale fa bene a chi soffre. Ecco cosa scrive:
Beh, siamo entrati nella seconda settimana del super virale Ice Bucket Challenge. Lo so, lo so, vi sento già: è cominciata come una cosa carina e ora è fuori controllo. Lo so. Sta praticamente colonizzando tutti i social network. Ho persino letto questo articolo nel quale l’autore chiama la cosa – che ha permesso di raccogliere una somma impensabile per una malattia le cui raccolte fondi sono vergognosamente povere – «uno spreco di acqua fresca». Un altro titolo riportava, polemizzando: «L’Ice Bucket Challenge curerà la SLA?». Ehm, no. (e, fra l’altro, sarebbe un obiettivo insensato per qualsiasi raccolta fondi). Alcuni si lamentano del fatto che la sfida stia dando corda al tipico narcisismo americano e che non stia facendo nulla per la sensibilizzazione riguardo la SLA o per la raccolta fondi. Dicono che la gente dovrebbe semplicemente donare soldi in silenzio e andare avanti con le proprie vite.
Capisco che la cosa li irriti, ma credo che non si rendano conto cosa vuol dire affrontare questa malattia beffarda e allo stesso tempo constatare che per il resto delle persone è una malattia invisibile. Dato che passo le giornate guardando mio marito seppellito dentro il suo stesso corpo, mi preme moltissimo far sapere alla gente l’esistenza di questa condizione disumana. Ma per qualche ragione, mentre tutti riconoscono che il destino dei malati di SLA è uno dei peggiori destini immaginabili, le raccolte fondi per la ricerca e le terapie sono praticamente nulle.
Recentemente, parlando con una dottoressa, ho fatto riferimento al fatto che mio marito ha la SLA: sulle prime, sembrava confusa. Poi, mi ha detto: «ah, il morbo di Gehrig, giusto?». Esatto. Per quale motivo una dottoressa laureata in medicina – ancora oggi – conosceva la malattia solamente con quel nome? Perché tendiamo ad associare una certa cosa a una data persona: è più semplice [Lou Gehrig fu un famoso giocatore statunitense di baseball, in attività negli anni Venti e Trenta: nel 1939 gli fu diagnosticata la SLA, di cui morì due anni più tardi]. È per questo che il coinvolgimento di gente famosa e il meccanismo del nominare altre persone stanno funzionando così bene: e se a qualcuno capita di fare bella figura mentre mette 50 dollari nel contenitore delle mance in favore della SLA, io non ho proprio nessun problema.
Fonte:http://www.today.it/
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