Il mio telefono squilla alle 18 di ieri. Il numero è locale, della compagnia Jawal, ma dall'altra parte c'è un messaggio registrato (in arabo) dell'esercito israeliano. "Abitanti di Jabalya - dice - dovete lasciare subito le vostre case perché stiamo per attaccare. Proteggete la vostra vita, spostatevi nel centro di Gaza". Il messaggio ricorda che a Sajaya molte persone, rimaste in casa, hanno perso la vita, mentre a Khuzaa - sostiene - lo sgombero in massa le ha messe al riparo.
Anche mia sorella ha ricevuto quel messaggio, altri vicini invece no. Nel frattempo gli anziani sono usciti dalla moschea. In strada prima, e in casa poi, si cerca rapidamente di stabilire che fare. Le donne vogliono fuggire. Gli uomini pensano che andare alla cieca può essere più pericoloso ancora. Non è immaginabile, aggiungono, che tutti gli 80 mila abitanti di Jabalya si mettano in moto. Innanzi tutto, con calma, si preparano le borse da portare con noi. Mettiamo dentro i documenti personali, un po' di soldi, gioielli, vestiti di ricambio. Le borse sono pronte, ma ancora non sappiamo cosa fare. L'edificio è immerso nel buio, non c'è corrente elettrica. In tutto siamo 17 persone, fa molto caldo.
Ci stringiamo al piano terra, in una stanza interna, la più sicura. Una radiolina a pile ci collega al resto del mondo. Poi entro nella mia automobile e accendo la radio. Ma per sapere cosa succede non sono necessari mezzi di comunicazione: sentiamo che l'aviazione israeliana è entrata in azione. Attorno avvertiamo esplosioni. Nessuno capisce cosa mai stiano bombardando. Di notte nessuno chiude occhio, tranne i bambini. Ogni tanto si svegliano di soprassalto, noi cerchiamo di tranquillizzarli. Alle cinque di mattina le cannonate israeliane colpiscono una scuola dell'Unrwa, nelle immediate vicinanze: 23 morti (per lo più donne e bambini) e decine di feriti. Di prima mattina parto per Gaza city alla ricerca di un riparo alternativo. Fra me e me decido: innanzi tutto, non andremo in una scuola dell'Unrwa, perché sono sovraffollate e non garantiscono protezione; inoltre non ci trasferiremo in zone più rischiose ancora di Jabalya; infine non permetterò che i miei anziani genitori si trovino abbandonati in mezzo alla strada come molti altri, nella piazza del Milite ignoto.
Telefono a mezzo mondo, ma a Gaza case disponibili per noi non ce ne sono. I prezzi sono schizzati da 750 a 1500 dollari per tre stanze, che comunque non si trovano. Mi basterebbe un ufficio, o magari un magazzino. Niente da fare. Un albergo offre stanze: me ne servirebbero dieci. Ma non lontano c'è una postazione di Hamas. Mi chiedo: e se fosse attaccata? Allora rinuncio. Da Jabalya mi chiamano in continuazione, ma io devo deluderli. Ho fallito la missione. Tutto sommato, mi dico, la nostra casa ha tre piani e rappresenta una difesa migliore che non le esili pareti delle scuole pubbliche. Sono passate 24 ore dall'avvertimento dell'esercito e siamo ancora al punto di partenza. Le nostre borse sono pronte, ferme all'ingresso. Intanto di nuovo cala la sera. Siamo ancora senza corrente elettrica. Accendiamo la radiolina e inizia un'altra nottata di paura e di insonnia. "Siamo in trappola", mi dico, "questa volta siamo proprio in trappola".
Nessun commento:
Posta un commento